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Autore: Lara Garlassi

Il tuo datore di lavoro ti stressa?

Hai diritto al risarcimento. Oggi parliamo di “straining”

Lavorare in condizioni di stress capita a molti ma ci sono situazioni in cui le condizioni di lavoro sono talmente ostili e nocive per il lavoratore da comportare un vero e proprio danno alla salute (ansia, attacchi di panico, depressione e senso di inadeguatezza, ecc).

Si pensi al caso del lavoratore costretto, dal datore o dal suo superiore, a mansioni dequalificanti, a continuo lavoro straordinario o ad operare in ambienti insalubri, vittima di atteggiamenti o parole umilianti, volgari o minacciose, o volutamente isolato dai colleghi e fatto oggetto di atteggiamenti sostanzialmente violenti e persecutori.

Si parla in questo caso di mobbing, parole ormai entrata nel linguaggio comune per definire i comportamenti abitualmente vessatori nei confronti del lavoratore.

Come noto, la condotta mobbizzante pur potendo essere di vario tipo, si caratterizza come una pluralità di atti continuativi aventi finalità persecutoria e con l’effetto di creare nella vittima una situazione di stress psicofisico talmente grave da generare un danno alla salute.

Possono tuttavia esserci situazioni in cui gli atteggiamenti frustranti nell’ambiente lavorativo non sono continuativi ma limitati nel numero e distanziati nel tempo, anche senza l’intenzione di perseguitare la vittima.

Sono condotte comunque ostili, ugualmente in grado di peggiorare in modo significativo la vita personale e lavorativa di chi le subisce ed inquadrabili giuridicamente come straining, ossia una forma di mobbing attenuata.

Anche lo straining, così come il mobbing, attribuisce alla vittima il diritto al risarcimento del danno subito sotto l’aspetto fisico e psichico, in base al principio per cui il datore di lavoro è tenuto a garantire un ambiente sereno e comunque non pregiudizievole per la salute e la dignità del lavoratore.

Rapporti civili tra minore adottato e parenti dell’adottante: l’ o.k. della consulta

Finalmente anche nell’adozione in casi particolari (ai sensi dell’Art. 44 L.184/83) si estendono i legami di parentela dell’adottante in capo all’adottato.

La Corte Costituzionale, con un’importantissima sentenza del 23 febbraio 2022, depositata il 28 marzo 2022, pubblicata in G.U. il 30-03-2022, la n. 79 – Anno 2022, ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice rimettente, ovvero il Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna – sezione di Bologna.

La Consulta parte col tratteggiare magistralmente la ratio dell’istituto dell’Adozione in casi particolari, ai sensi dell’Art. 44 della legge n. 184 del 1983, che consiste, in primis, nella valorizzazione dell’effettività del rapporto instauratosi con il minore; in secundis, nella difficoltà o nella impossibilità , per taluni minori, di accedere alla adozione piena.

Seguendo un ragionamento lucido e incentrato unicamente sul primario interesse del minore, la Corte afferma che l’adozione in casi particolari dimostri una precipua vocazione a tutelare l’interesse del minore a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate e, pertanto, ritiene che la norma censurata , ovvero l’art. 55 della legge 4 maggio 1983 n. 184 (Diritto del Minore a una famiglia) si ponga in contrasto con l’art. 8 CEDU e vìoli gli obblighi internazionali di cui agli artt. 3, 31 secondo comma, e art. 117, primo comma Cost. – e debba pertanto dichiararsi la sua parziale illegittimità costituzionale – nella parte in cui esclude, attraverso il rinvio all’art. 300 , secondo comma c.c., l’instaurarsi di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante.